Il 14 settembre 1994 il decreto ministeriale 739/94 riconosce l’infermiere responsabile dell’assistenza generale infermieristica, precisa la natura dei suoi interventi, gli ambiti operativi, la metodologia del lavoro, le interrelazioni con gli altri operatori, gli ambiti professionali di approfondimento culturale e operativo, le cinque aree della formazione specialistica (sanità pubblica, area pediatrica, salute mentale/psichiatria, geriatria, area critica). Il profilo disegnato dal decreto è quello di un professionista intellettuale, competente, autonomo e responsabile. Analoga definizione dei campi di attività e delle competenze verrà successivamente stabilita anche per l’infermiere pediatrico (Dm 70/97) e per altri 20 profili professionali, tra cui figurano quello dell’assistente sanitario, dell’ostetrica, del terapista della riabilitazione, del tecnico di laboratorio ecc. L’attivazione del profilo si presenta come il banco di prova per verificare la compliance tra le aspirazioni e le potenzialità degli infermieri, che sono chiamati ad assumere – anche formalmente – la responsabilità di gestire autonomamente il processo assistenziale, dal momento decisionale a quello attuativo, valutativo e di confronto.
[color-box]A vent’anni di distanza vogliamo ricordare questa escalation riproponendo le considerazioni dell’Infermiera Rosaria Palermo, curate da Chiara D’Angelo, Infermiera ed editrice sul sito www.infermieristicamente.it, che ringraziamo per averci dato la possibilità di condividere quello che state per leggere.[/color-box]Il 14 Settembre 2014 il Decreto 739 compie vent’anni.
Vent’anni come quelli trascorsi dal mio Diploma di Infermiera professionale. Vent’anni dal mio primo corso di formazione, che neanche a farlo apposta riguardava proprio l’analisi dei Profili professionali. Vent’anni di lavoro alle spalle. Quando si è giovani come lo ero io allora, tutto sembra possibile, ed in quel mese di Luglio di vent’anni fa, mentre a Roma sfilavano più di 50 mila lavoratori della sanità (infermieri soprattutto), per rivendicare con la loro presenza una migliore qualificazione della professione, io come tanti altri ragazzi eravamo impegnati a studiare per sostenere il giorno dopo, l’esame che ci avrebbe spalancato le porte del lavoro e avviati compiutamente verso una vita nuova, come Infermieri e come persone. Uno degli slogan della manifestazione diceva: “infermiere qualificato, paziente tutelato” e l’allora Ministro della Sanità, Raffaele Costa da li a poco firmava il Decreto 739, che per gli Infermieri di ieri e di oggi è la pietra miliare di quel processo che a tutt’oggi vede nell’infermiere il responsabile unico dell’assistenza generale infermieristica, in quanto ne “precisa la natura dei suoi interventi, gli ambiti operativi, la metodologia del lavoro, le interrelazioni con gli altri operatori, gli ambiti professionali di approfondimento culturale e operativo, le cinque aree della formazione specialistica (sanità pubblica, area pediatrica, salute mentale/psichiatria, geriatria, area critica). Il profilo designato dal Decreto è quello di un professionista intellettuale, competente, autonomo e responsabile.” (tratto da, IPASVI una lunga storia). Allora, in quel lontano 1994, poco più che ventenne ero ancora infarcita di nozioni, di un manierismo di facciata che ci voleva ossequiosi e para-medici, poco inclini al ragionamento critico e scientifico. Confusa dai tanti cambiamenti in atto, proprio l’IPASVI veniva incontro ai giovani come ai colleghi più maturi, nel tentativo di divulgare ed analizzare le nuove disposizioni di legge.
Una grande manifestazione popolare nell’accezione più positiva del termine, aveva avuto il merito di portare alla luce l’insoddisfazione crescente di un popolo di professionisti già allora, secondo i dati proprio dell’IPASVI, molto nutrito (più di 260 mila). Qualche giorno di vacanza per digerire lo stress da esami e appena fatta l’iscrizione al Collegio IPASVI, pronti via alla ricerca di un lavoro. Certo ci attendeva allora un percorso meno arduo rispetto a quello che sarebbero stati costretti a compiere i giovani laureati Infermieri, qualche anno dopo. Nel ’94 il mansionario compiva 20 anni, e ai colleghi più attenti non sfuggiva il paradosso dell’incompiutezza di un percorso giuridico, che se da un lato faceva dell’Infermiere italiano un professionista intellettuale, autonomo e competente dall’altro lo ingabbiava con una serie di prescrizioni e di mansioni rigide a cui era impossibile sottrarsi. Ai più giovani tutto questo era piuttosto chiaro, tanto che l’esigenza di capirne di più si faceva strada prepotentemente in noi. A distanza di un paio di mesi, i vari Collegi avevano cominciato a realizzare dei corsi di formazione per analizzare nello specifico il Decreto da poco emanato e per farne apprezzare la portata storica.
Con le idee un po’ più chiare di prima, come tanti giovani che pagano lo scotto di essere nati nella Regione sbagliata, prendevo un treno per andare ad espletare il primo concorso pubblico della mia vita. Era già il 1995, quando prendevo servizio presso una struttura riabilitativa sulle pre – alpi varesine. Ricordo ancora adesso la neve, il freddo, così come il distacco e l’incertezza di quel nuovo inizio. I primi mesi di lavoro li ricordo ancora nella loro interezza, un nuovo modo di lavorare ed un nuovo modo di vivere. Il ’96 era alle porte e con esso gli ulteriori cambiamenti che il legislatore aveva pensato per noi e che da giovane Infermiera avevo tanto atteso. Insomma questa storia dell’ausiliarietà della professione infermieristica non mi riusciva di digerirla. Accolsi con entusiasmo la legge 42/99, che sanciva una volta per tutte, che a determinare il proprio campo di attività e responsabilità fossero il Profilo, gli ordinamenti didattici ed il Codice deontologico. Ricordo tuttavia l’aspro dibattito con i colleghi più vecchi, i quali con timore mi dicevano che l’abolizione del Mansionario si sarebbe rivelato un boomerang per noi Infermieri. Mi sembrava allora che le loro idee fossero dovute ad una paura quasi irrazionale di fronte all’ineluttabilità del cambiamento. I progressi medico scientifici imponevano un’altra visione del lavoro e dell’organizzazione sanitaria nella quale eravamo inseriti. Davvero, allora, non riuscivo a comprenderli. Intanto, l’esperienza lombarda mi forgiava come il fuoco fa con il ferro; quell’esperienza è stata formativa, mi ha insegnato quanta gioia derivi dalla consapevolezza di aver fatto e fare bene il proprio lavoro. Mancava tuttavia, qualcosa alla mia preparazione, sentivo che era giunto il momento di rimettersi sui libri, ma non sapevo dopo il Diploma quale possibilità formativa si presentasse per un giovane Infermiere alla fine degli anni novanta.
Quel tassello che mancava era il riordino della professione che fu rappresentato dalla legge 251/2000 che istituiva, formalmente, la Dirigenza infermieristica e dava la possibilità a coloro che avevano un titolo acquisito prima della riforma di poter accedere alla laurea di secondo livello in Scienze infermieristiche. Alla mia vita parallelamente sentivo mancavano “altri” tasselli perché fosse piena, ed uno di quei tasselli, era la via del ritorno nella mia terra. Così come ricordo i primi mesi di vita in Lombardia, riesco a sentire ancora le sensazioni vissute in quel primo periodo in Sicilia, disagio ed inidoneità su tutte. Ma come persona e come professionista non ho mai indugiato troppo sul passato. Potevo decidere di ritornare indietro sui miei passi o rimanere e lottare affinché si potesse realizzare buona sanità anche da noi. Nel 2002 l’emanazione di una legge, la n. 1 dell’ 8 Gennaio, recante disposizioni urgenti in materia di personale sanitario, in cui si fissavano alcuni principi di carattere generale per sopperire alla mancanza di Infermieri nelle strutture. A forza di “volere” e “perseverare” e di “insistere” giorno dopo giorno, riuscivo ad introdurre piccoli, ma significativi cambiamenti nel nuovo ambiente lavorativo, come quelli che speravo sarebbero arrivati dall’emanazione di tutte le leggi fino a quel momento promulgate. Per far diventare uno dei miei desideri realtà dovevo attendere il 2007, anno in cui l’ateneo catanese istituiva il primo corso di laurea specialistica. Iniziavo il mio percorso formativo con grande entusiasmo, ma giorno dopo giorno questo si scontrava con una didattica povera e copia incolla del triennio di base, che lasciava in me un profondo rammarico e una profonda convinzione che le norme a tutela dell’autonomia didattica degli Atenei italiani avessero dato luogo a delle chimere.
Intanto il legislatore taceva, i problemi economici e la crisi cominciavano a far intravedere i primi segnali di se in lontananza. Tutto sembrava fermo, immobile. Ma il tempo al contrario scorreva velocemente. E finalmente il 2009 vedeva la promulgazione del nuovo Codice deontologico e il raggiungimento di un sogno, malgrado le attese deluse da un punto di vista formativo, della laurea. Ancora una volta spinta dall’idea che solo chi sogna non si arrende mai, provavo a farmi forza e a cercare di vedere nell’emanazione di un nuovo Codice la possibilità per noi Infermieri di migliorare come professionisti e di fare la differenza nella vita delle persone che assistevamo e continuiamo ad assistere quotidianamente. E all’improvviso mi ritornava in mente lo slogan che i nostri colleghi urlavano più di 15 anni prima a Roma “Infermiere qualificato, paziente tutelato” e le recriminazioni dei vecchi colleghi e come in uno scenario “mancante” dove agli attori abbiano tolto il palco su cui recitare, sentivo che giorno dopo giorno ci stavano togliendo la possibilità di crescere. La crisi economica, sempre più asfissiante, si presentava alle porte dei nostri ospedali con un nome inquietante Spending review, per non lasciarli più come fa un malato cronico che entri in una lungodegenza, e cominciava a sottrarci gli strumenti, quelli intangibili oltre a quelli tangibili, della nostra professione.
Dal 2002 intanto sono trascorsi 12 anni e come una ferita inferta al cuore della nostra professione mi ritorna in mente la frase della nostra cara Flo: “Per noi che prestiamo assistenza infermieristica è qualcosa che se non contribuiremo a far progredire ogni anno, ogni mese, ogni giorno, contribuiremo a far regredire”, si perché vedo oggi, regredire la professione, piegata dai vincoli finanziari, oppressa dalla fatica e dall’immobilità delle nostre organizzazioni, sempre di meno gli Infermieri e sempre più vecchi e demotivati. A furia di tagliare non resterà nulla se non la nostra dignità, che nessuna legge è mai servita ad aumentare e che nessuna spending review potrà mai portarci via.
Sono vent’anni di Profilo infermieristico e vent’anni di Lavoro infermieristico, due binari paralleli, quello legislativo e quello professionale che prima o poi condurranno gli Infermieri alla stessa stazione che si chiama “consapevolezza del futuro”, che ancora una volta dipenderà solo dalla nostra voglia di rivendicazione e non di una migliore qualificazione della professione stavolta, ma di una “vera” libertà di pensiero e di moralizzazione che parta dall’alto stavolta e che ci restituisca ciò che con l’impegno abbiamo dimostrato di meritare, a dispetto di chi ci ha usati in questi ultimi anni non come professionisti intellettuali, competenti, autonomi e responsabili ma come manovalanza a basso costo.
[color-box]E’ ora di fermaci davanti a quei binari, scendere per strada e ritornare ad urlare: “Infermiere tutelato, paziente realmente assistito”, è ora di ritornare a riappropriarci di nuovi scenari, perché senza Infermieri, chi si curerà di voi!
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