In epoca di spending review e di tagli pesanti alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, tra le tante vittime della “razionalizzazione”, rientra senza dubbio la formazione dei professionisti. Le norme contrattuali che impongono al datore di lavoro sanitario di destinare fino all’1% del monte salari alla formazione ha avuto un taglio del 50% del fondo che però non era sufficientemente determinato, essendo, elastico – dedicato. Con queste scarse risorse, le aziende non riescono più ad assicurare e a fare assolvere l’obbligo fondamentale di aggiornamento per il personale dipendente che deriva, in primo luogo, da un preciso disposto legislativo.
Ricordiamo infatti che la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, ancora 35 anni orsono, indicava tra gli “obiettivi” dell’istituendo Servizio “la formazione professionale e permanente nonché l’aggiornamento scientifico culturale del personale del servizio sanitario nazionale”.
Accanto all’aggiornamento obbligatorio ECM – il cui mancato soddisfacimento costituirebbe (norma esistente, ma non ancora applicabile, in attesa del riordino degli ordini professionali) “illecito disciplinare” – convive da sempre l’aggiornamento “facoltativo” a cui il datore di lavoro non è obbligato a contribuire economicamente – e di conseguenza da soddisfarsi prevalentemente in “autonomia economica” (a spese del dipendente…) – per il cui soddisfacimento il dipendente ha diritto a giorni di permesso retribuiti ex art. 21 CCNL 2001. I giorni di permesso – fino a un numero massimo di otto l’anno – vengono concessi per corsi di aggiornamento “comunque connessi all’attività di servizio”.
Il percorso ad ostacoli per il professionista dipendente che intende perseguire a proprie spese l’obbligo ECM e a supplire alle carenze formative predisposte dalle aziende si evidenzia anche nella concessione di tali permessi, in cui il potere discrezionale delle aziende viene talvolta usato arbitrariamente per la negazione del permesso.
Su questo punto è intervenuta una recentissima sentenza del Tribunale di Pescara –sentenza 26 giugno 2013, n. 887 – in funzione di giudice del lavoro, la quale ha fatto soccombere le ragioni dell’azienda sanitaria che aveva negato due giorni di permesso a un’infermiera che aveva chiesto la partecipazione a un corso di Counseling, con più motivazioni relative alla non attinenza rispetto all’attività esercitata e alla qualità degli organizzatori.
Sul primo punto – proprio nel caso di specie – vi è stato un evidente autogol aziendale in quanto non solo ha dovuto farsi spiegare da un giudice che il Counseling è attinente all’attività infermieristica in quanto è un “concetto che si pone a livello intermedio tra la consulenza e la relazione di aiuto, ben costituisce un’attività di supporto agli operatori sanitari, atteso che quella sanitaria sostanzia in concreto una professione di aiuto alla persona”, ma la stessa azienda lo aveva inserito tra le attività di aggiornamento obbligatorio per il personale dipendente.
Il Tribunale di Pescara, contrastando la decisione dell’azienda che aveva trasformato d’ufficio, in ferie, i due giorni di permesso retribuito, specifica che “mal si comprende la censura dell’Azienda volta a negare cittadinanza alla possibilità di aggiornarsi in materia di Counseling alla ricorrente, la quale, nella sua qualità di infermiera professionale, si palesa figura predisposta a spendere i concetti della disciplina in parola nell’ambito della sua offerta formativa con le persone malate e bisognose di aiuto”.
Sul secondo punto – concernente la sindacabilità sugli organizzatori del corso stesso – si incentrano le decisioni di diritto più interessanti in quanto l’azienda, statuisce il Tribunale di Pescara, non ha il “potere di sindacare oltre alla validità del corso di aggiornamento (che se è accreditato ECM la validità la assume in re ipsa) e “pertanto le valutazioni sugli organizzatori dell’evento si rivelano irrilevanti” e di conseguenza in relazione
all’esistenza dei presupposti – attinenza in senso lato rispetto alla professione e accreditamento ECM – “non è dato rinvenire un potere discrezionale dell’Amministrazione” in merito alla negazione del permesso.
Una sentenza dunque che pone un elemento di chiarezza sulla concessione dei giorni di permesso retribuiti che non possono essere negati in presenza dei presupposti ricordati.
Rimane la fallacità del sistema che da un lato pone nelle sue impronte genetiche – la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale – l’obiettivo di formazione del proprio personale e dall’altro nega le risorse per il fondamentale aggiornamento – obbligatorio e facoltativo –necessario per il perseguimento di tale obiettivo.
L’innesto dell’Educazione continua in medicina si è svolto senza le dovute chiarezze in merito agli obblighi datoriali, introducendo da un lato un obbligo che sembra essere tutto a carico del dipendente, dall’altro non disponendo a oltre dieci anni di distanza dal suo avvio alcuna conseguenza neanche di carattere premiante per chi ottempera agli obblighi previsti.
via www.ailf.eu